Adoro lo stile di Paolo Nori a tal punto che leggo i suoi romanzi a prescindere dalla storia. Perché a volte, o quasi sempre, la storia non la trovi. Come ne I malcontenti. Insegui di pagina in pagina l’inizio della storia vera, che verte intorno all’organizzazione di questo festival strampalato, il festival dei Malcontenti appunto, ma poi con meraviglia ti trovi alla fine del libro, e della storia, quella vera, poco o niente. Nei romanzi di Paolo Nori, perlomeno quelli da me letti (Bassotuba non c’è, Spinoza, Noi la farem vendetta, I quattro cani di Pavlov, Le cose non sono le cose, Si chiama Francesca, questo romanzo, Gli scarti), la storia va sullo sfondo, e lo sfondo diviene figura. E lo sfondo che diventa figura è sempre l’Io narrante alle prese col quotidiano, e le proprie elucubrazioni mentali, ossessive e invadenti, futili e profonde, serie e facete. Il tutto condito con un’ironia capace di strapparti grasse risate.
Ma è lo stile di Paolo Nori che fa da maestro. Riesce a rendere interessante il racconto del banale, dell’ovvio, dell’insignificante. E se poi ascolti proprio lui, Paolo Nori, leggere i suoi scritti, be’ allora, quello stile ti fa entrare in una sorta di colonna sonora del pensare, nella musica che accompagna lo srotolarsi dei pensieri in testa, una colonna sonora ben precisa che ti porta a leggere i suoi romanzi con le stesse inflessioni, cadenze e pause. E non può che suscitarti tanta simpatia e affetto. (Il reading di Learco, In un’ora, nove romanzi in musica con Learco Ferrari, in un’ora è da non perdere).
I malcontenti non è tra i suoi libri migliori ma c’è un passo che vale l’intero libro: l’elucubrazione sulle generazioni nate negli anni venti, trenta, quaranta, cinquanta e sessanta. In un solo paragrafo, Paolo Nori descrive le differenze nei compiti assegnati a ogni generazione di ventenni, con lo sconfortante epilogo che
“Poi eravamo arrivati noi, nati negli anni sessanta e che avevamo vent’anni negli anni ottanta e l’unica cosa che dovevamo fare, era stare tranquilli e non rompere troppo i maroni.
Mi sembrava che noi, avevo detto, fossimo stata la prima generazione che, se ci davano un lavoro, non era perché c’era bisogno, ci facevano un favore”.
E non a caso ci hanno inventato i videogiochi.
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