Il momento in cui ti rendi conto, in tutta la sua concretezza, di aver perso per sempre la persona cara non è il funerale, ma quando l’impresario funebre chiude e sigilla la bara. Assisto all’operazione. Pone un primo coperchio in lamiera e ne salda l’intero bordo meticolosamente con lo stagno liquido. L’intervento è chirurgico. L’impresario impugna sulla sinistra la pistola con la fiamma e sulla destra la barretta solida di stagno che al contatto con il fuoco si scioglie e salda la lamiera. Fa un primo passaggio agli angoli e nei punti strategici, poi ripassa ogni centimetro per colmare tutte le fessure. Non lascia alcuno spiraglio. Poi ci appoggia sopra il coperchio in legno, e stringe le viti nelle fessure predisposte con l’avvitatore che a fine corsa emette un tric trac ripetuto. La bara è pronta, si può partire.
E a bara sigillata, ti rendi conto che tuo padre non lo vedrai più. Fino a un attimo fa c’era il corpo. Anche se gelido lo potevi toccare, anche se i connotati erano cambiati lo potevi osservare, anche se non ti rispondeva gli potevi parlare. Il corpo rappresentava ancora qualcosa di reale, di concreto, di tangibile a surrogato della perdita. E questo ti permetteva di non sentirla del tutto, la perdita. Non era ancora tutto perso. Be’, dopo che la bara è stata sigillata, perdi anche l’ultimo attaccamento alla materia che ha ospitato per 74 anni tuo padre. Materia che sebbene morta ti ricordava la vita. Ora, con il coperchio e tutto il resto, diventi consapevole, totalmente consapevole, di non avercelo più, un padre vivo.
E questa totale consapevolezza è disarmante.
(da Il peso specifico dell’Amore di Gianluca Antoni)
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