# 058 | Il dolore può anche far del bene

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Franca è una donna che, quando ascolti raccontare la sua vita, ti ripeti che sei proprio fortunato tu, che tutte quelle sfortune che ha avuto lei, di perdere i genitori quando era giovane, di doversi sobbarcare la responsabilità di crescere i fratelli minori, di lasciare gli studi per andare a lavorare, di affrontare la malattia del marito e altri incidenti che non vi sto qui a raccontare, tu, per fortuna, non lei hai mica avute.

La sua vita, dice Franca, è pervasa dal dolore. Cerca da sempre di inseguire la felicità, tenace come un mulo, ma anche in quelle occasioni che l’ha sperimentata, è svanita in un baleno, e quel dolore continuo, diffuso e pervasivo ha ripreso immediatamente campo.

É tutta la vita che Franca fa di tutto per sbarazzarsi di questo dolore, ha fatto pure un’analisi durata anni, ma, niente, non c’è mai riuscita e si sente stremata.

«Mi può aiutare, dottore, a sbarazzarmi di questo dolore?» chiede alla fine.

Rimango in silenzio per qualche istante, mentre vorrei davvero rispondere con il cuore in mano che sì, certamente, grazie a me riuscirà a sbarazzarsi di questo dolore e trovare la felicità, ma mi rendo conto che questa strada è la strada battuta da sempre da Franca, la strada che l’ha portata ogni volta a un’amara delusione, e che non porta da nessuna parte se non al solito punto di partenza.

Poi mi viene in mente un brano che ho letto poco tempo fa, un brano tratto dal bel romanzo Che dispiacere (Salani, 2020) di Paolo Nori, un brano che mi sembra scritto ad hoc per lei. Si tratta di un articolo che scrive Bernardo Barigazzi, il protagonista, il direttore del giornale sportivo Che dispiacere che esce in edicola solo i giorni successivi alle sconfitte della Juventus.

Così, piuttosto di risponderle: “Franca, lei è nel posto giusto di fronte alla persona giusta che l’aiuterà a sbarazzarsi dal dolore!” le chiedo semplicemente il permesso di leggerle il brano di Paolo Nori. Lei acconsente.

“Ho cominciato a tenere per il Parma nel 1970… ma ho cominciato a andare allo stadio qualche anno dopo, quando il Parma era in serie C, e i ricordi più vividi, della mia esperienza di tifoso del Parma, hanno a che fare col freddo. Ho preso tanto di quel freddo, allo stadio Tardini di Parma; c’erano le sedute ancora in legno, tribune in tubi innocenti e assi di legno, e, quando il Parma perdeva, io mi ricordo che tornando a casa mi chiedevo: ‘Ma cosa ci vado a fare, a prendere tutto quel freddo?’ Adesso lo so, cosa ci andavo a fare. Un po’ ci andavo perché mi piaceva moltissimo la maglietta, del Parma, bianca con la croce nera, c’era solo il Parma, al mondo, con quella maglietta lì, un po’ ci andavo per vedere la gente, che tutta quella gente, i cosiddetti tifosi, a guardarli, anche loro, quando arrivavano, e quando andavano via, non avevan le facce di gente che andava, o veniva via, da un posto dove si erano, dico una parola grossa, divertiti, no. Avevan le facce di gente che, prima della partita eran preoccupati, che erano tesi, come se dovevan passare un esame, che poi era un esame che non lo davan neanche loro, come se assistevano a un esame che ci tenevan tantissimo che andava bene e non potevan far niente, che hai voglia studiare, interrogavano un altro, prima della partita, e dopo, se avevano perso, erano delusi, erano di cattivo umore, che loro lo sapevano, che andava a finire così, che l’avevano detto, o che non l’avevano detto ma che se lo sentivano.

Ho fatto anche delle trasferte, con le felpe, le giacche a vento, le corriere, i termo per il caffè, i biglietti con la filigrana, da conservare, le sciarpe, le radioline con le cuffie e anche lì, io ogni tanto anche allora, quando perdevamo, a tornare indietro, dopo essermi detto che io lo sapevo, che andava a finire così, che l’avevo anche detto, o che non l’avevo detto ma me lo sentivo, io mi chiedevo che senso aveva, e mi rispondevo che il senso era vincere, solo che adesso, che son passati tanti anni, io non credo di esser d’accordo, col me stesso di allora, che il senso fosse vincere.

Perché, non so, per esempio, io mi ricordo l’Italia, i Mondiali, le due volte che ha vinto che io ero al mondo, nel 1982 e nel 2006, la gente sopra le macchine, con le bandiere, con le facce pitturate di blu, o di tricolore, a gridare, a suonare il clacson, a bere, non so, io non l’ho mica mai tanto capito, che gusto c’è, a vincere.

Secondo me, mi sbaglierò, ma quando perdi, che poi non perdi te, perdono loro, ma a te ti dispiace, e magari perdi quattro a zero, o cinque a uno, e nell’andare a casa guardi per terra e vedi tutte le foglie, tutte le crepe che ci son sull’asfalto e ti vien da pensare a tutto quello che non va mica bene nella tua vita, a tutte le cose che ti eri ripromesso che le facevi e poi non le hai fatte, tutto il freddo che hai preso, ecco secondo me, quei momenti lì, che te ti chiedi ‘Ma che vita sto facendo?’, secondo me quelli sono momenti che a me piaccion di più, di quando sei in centro, imbottigliato sopra una macchina, che canti l’inno nazionale con una bandiera in mano e la faccia dipinta di blu, o di tricolore o di biancocrociato o in qualsiasi altro modo.

Questa cosa, io credo che, bene, l’abbia scritta un tennista che si chiama Andre Agassi in un libro che si intitola Open nel passo in cui racconta cos’ha pensato dopo che ha vinto il primo Wimbledon della sua vita. ‘Ho la sensazione’ ha scritto Agassi ‘di essere stato messo a parte di un piccolo, ignobile segreto – vincere non cambia niente. Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta. E ciò che provi dopo aver vinto non dura altrettanto a lungo. Nemmeno lontanamente’.

Ecco. Per questo l’amara sconfitta della Juventus, stasera, a Madrid, è una sconfitta che, ai tifosi juventini, può fare solo del bene. Anzi, lasciatemelo dire: era ora.”

Quando termino la lettura e guardo Franca, noto i suoi occhi pieni di lacrime.

«È bellissimo, dottore – commenta commossa. – Non avevo mai visto il mio dolore da questa prospettiva. Ora tutto può avere un senso. Grazie!»

«Deve ringraziare Paolo Nori» le rispondo.

«Allora andrò a comprare il suo libro!» mi fa con un grande sorriso, uno di quelli che ti vengono quando ti sei tolto un gran peso sulla spalle, o sullo stomaco, o sul cuore, o dove volete voi.

 

Esercizi e suggerimenti

Durata: quanto necessario.

Frequenza: al bisogno.

Obiettivo: ristrutturare il rapporto con il proprio dolore

Azione: entra in contatto con quel dolore di cui cerchi di sbarazzarti senza risultato. Accoglilo e osservalo da una prospettiva diversa, come se rappresentasse il senso profondo del tuo essere, il fine ultimo del sentire di vivere appieno la tua vita e ciò che è davvero importante per te. Nota cosa succede, cosa si trasforma in te: nei tuoi pensieri, nelle tue emozioni, nel tuo rapporto con tutto ciò che ti accade. Inizia a comportanti in sintonia con questo nuovo modo di percepire il tuo dolore e scopri come molte cose cambiano e quel dolore piano piano si fa più leggero e magari chissà, sparisce, lasciando posto al benessere e a momenti di felicità.

 

Il consiglio del biblioterapeuta

Maurizio Pagliassotti, Ancora dodici chilometri (Bollati Boringhieri, 2019).

In questa cinquantottesima lezione Gianluca ha già consigliato una lettura terapeutica – Che dispiacere di Paolo Nori edito da Salani – che ha avuto un impatto dirompente ed epifanico su Franca.

Personalmente non ho letto il romanzo di Nori ma mi ha incuriosito e stimolato, proprio perché ha fatto risuonare in me qualcosa della “mia” storia.

Anche io come Franca per molto tempo sono stato soverchiato dalla sofferenza (sempre la “mia”) e se avessi avuto un suggerimento come quello proposto da Antoni in questa lezione, forse l’avrei risolta in meno tempo e con meno fatica.

Permettersi di vedere le cose in una prospettiva diversa modifica noi stessi, profondamente, e anche il modo in cui osserviamo il mondo e a come a questo ci relazioniamo.

Quindi, dopo esser stato scippato dal mio ruolo (si scherza, eh!) potrei chiudere qui il mio intervento ma invece no! Ho deciso di consigliare anche questa volta un libro

Chi ha già letto le lezioni del nostro psicoterapeuta ipnotista di fiducia e la mia appendice biblioterapica sa bene che il consiglio di lettura cade sempre su un testo specificatamente narrativo.

Questa volta invece – utilizzando un barbatrucco! – ho deciso di consigliarvi un libro che sta a metà tra l’opera narrativa e il reportage giornalistico: Ancora dodici chilometri (Bollati Boringhieri) del giornalista Maurizio Pagliassotti.

I dodici chilometri del titolo sono quelli che separano Claviere, l’ultimo paese italiano prima del confine, dalla cittadina francese di Briançon, attraverso il passo del Monginevro.

Una distanza breve, sulla carta, ma ostile e ardua da percorrere, soprattutto durante i mesi invernali.

Una distanza breve che non ha fermato – e non ferma ancora oggi, nonostante i controlli delle Forze dell’Ordine italiane e della Gendarmerie francese – molti tra uomini e donne e bambini in viaggio da zone di guerra o di disagio mossi dal desiderio di spostarsi verso una vita migliore.

Una distanza breve che è diventata per molti il punto di arrivo definitivo.

Ecco, la scelta di questo libro non ha la finalità di far riflettere sulla condizione dei migranti – che comunque è sempre un tema importante sul quale riflettere – ma quella di permettere a chi legge di immedesimarsi nei panni altrui e vedere le cose da un altro punto di vista.

Da un’altra prospettiva.

Non è necessario – lo dico sempre – leggere trame che corrispondano al proprio vissuto per raggiungere nuove consapevolezze e “stare meglio”. L’importante è permettersi di farlo.

Gianluca Antoni

Gianluca Antoni

Psicologo Psicoterapauta Ipnotista, Career Coach, Formatore, Scrittore

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